Analisi della fantasia di sparizione secondo “Istinto di morte e conoscenza”: correlati clinici, forensi e neuroetici

ABSTRACT

“Nell’ambito dell’istinto di morte, il neonato fa, crea, il buio intorno a sé“. Tra le affermazioni di Fagioli, questa appare particolarmente appropriata per un articolo in cui saranno analizzate diverse forme di “buio”.

Sono poste all’attenzione di chi legge diverse situazioni cliniche psichiatriche, in cui l’arrivo del “buio” coincide con la sparizione dell’oggetto, evenienza non solo istintuale in senso teorico, ma terribilmente realistica, tragica e vissuta. I protagonisti sono pazienti psichiatrici incontrati dagli autori dell’articolo durante gli anni della loro formazione in Svizzera, dove lo stesso Massimo Fagioli svolse pratica clinica nel vecchio “sanatorium” di Bellevue. A parlare saranno infatti medici, terapeuti e ricercatori italiani in formazione oltralpe, che hanno reinterpretato alla luce degli studi su Massimo Fagioli alcune situazioni cliniche da loro seguite. Il primo caso è quello di S., una donna che ha tentato di far “sparire” suo figlio, spinta da un’intuizione delirante durante lo scoppio della pandemia di SARS-CoV-2 e che dopo il tentato omicidio, lo ha nascosto in un buio rifugio antinucleare. Segue il caso di G., la cui “distrazione”, forse perché proprio al buio e durante un misterioso dormiveglia, è risultata fatale in quanto culminata nel soffocamento della figlioletta, finendo infine nel “buio” della depressione post-partum.

Si tratta quindi di un concetto di “buio” che assume un valore patologico, se si considera che i cambiamenti in esame consistono nel recuperare lo stato precedente annullando ciò che si è. Allora la pulsione di annullamento è il motore di ogni cambiamento nell’ambito delle fasi e delle svolte di vita, a partire dalla nascita. All’analisi si aggiunge l’interessante contributo di un ginecologo, che non solo esprime le sue opinioni riguardo alla teoria di Massimo Fagioli, ma, con la sua testimonianza clinica, dà anche un’idea significativa dei termini dello stato dell’arte circa le nuove conoscenze sulla vita fetale. È vero che, con l’arrivo delle neuroscienze, la tesi dell’impatto luminoso sulla retina del feto è ormai una realtà più tangibile e comprensibile, ma l’importanza dell’”Istinto di morte” resta di grande interesse anche per altre implicazioni. Da un lato gli esperimenti neuroscientifici ne indicano l’esattezza, dall’altro l’applicazione interumana ne determina gli aspetti etici, portandoci a speculare che, se l’intelligenza artificiale sostituisse totalmente quella umana entro i prossimi 50 anni, allora “l’istinto di morte” perderebbe forse il suo ruolo incosncio, per lasciare il posto ad un surrogato di numeri e simboli, un algoritmo che spiegherebbe la funzione della psiche umana. Sara possibile? E se così fosse, sarebbe giusto? Fagioli avrebbe dato la sua risposta ad un quesito così problematico, ma ad esso anche coloro che scrivono, in qualità di medici e ricercatori, hanno scelto di dare la loro.

50 anni di Neuroscienze. Massimo Fagioli aveva ragione?

Quando Fagioli scrisse “Istinto di morte e conoscenza”, le neuroscienze erano ai primi albori. Ebbe un’intuizione che allora poteva sembrare infondata, ossia quella della stimolazione retinica. Alla nascita, la realtà non materiale della psiche puo’ essere “triggerata” da uno stimolo fotonico, dunque fisico. Il neonato, esposto alla luce e a una realtà tanto diversa dal caldo e accogliente amnios materno, non puo’ che non difendersi, annullando traimite un meccanismo di difesa mentale, la realtà algida e sconosciuta a cui é confrontato. Questa pulsione di annullamento é secondo Fagioli la “miccia” per la coscienza del sé del neonato, che grazie alla sua capacità di immaginare, gli farà ricordare successivamente la prima realtà a cui é stato esposto, ossia la sensazione di contatto del liquido amniotico, sparito al momento della nascita1. Grazie ai progressi delle neuroscienze negli ultimi 50 anni, è stato possibile osservare che uno stimolo luminoso scatena davvero dei potenziali evocati nell’encefalo del neonato e che dunque, venrie alla “ luce” non é soltanto un modo di dire, dato che la luce stessa ha un ruolo importante sul sistema nervoso centrale2. Certo è, che sostenere che il pensiero umano possa provenire da una reazione di fotoisomerizzazione della rodopsina, è non solo un concetto cacofonico, ma anche una blasfemia chimico-fisica, per chi si è formato sui polverosi trattati di Freud. Non stupisce dunque che nel 1972, la teoria di Fagioli così all’avanguardia, potesse sembrare troppo metafisica, specialmente agli occhi dei rigidi psicoanalisti. L’interessamento di Fagioli alle caratteristiche della retina fu all’epoca innovativo e resta ancora un argomento di grande attualità in neuroscienze: cosa scaturisce psichicamente da un impulso retinico? La retina, cosi’come gli altri componenti del SNC, è coinvolta nel processo della neurodegenerazione; la ricerca sul tessuto retinico si è spinta ad oggi persino all’individuazione di biomarker per malattie neurodegenreative come l’Alzheimer3. Secondo Fagioli, per scatenare un qualsiasi processo psichico, è necessario uno stimolo. Ma da quale stimolo deriva la psyché? Alla luce degli ultimi avanzamenti in neuroscienze, si puo’ rielaborare il concetto nel modo seguente: cosa scaturisce, psichicamente, un impulso retinico? Numerose ricerche in neuroscienze identificano il trigger come uno stressor, dall’ inglese un elemento che altera un’omeostasi e attraverso l’attivazione del sistema dei glucocorticoidi e l’ossidazione dei neuroni, si vede alterata anche la sinaptogenesi4. Si ha spesso la tendenza ad avere un bias negativo nei confronti della parola “stress”, ma si dimentica che senza stress, non ci sarebbe resilienza. Non ci sarebbe quindi adattamento e di conseguenza, si metterebbe un freno ad ogni cambiamento e all’evoluzione in generale5. Questa entropia, intesa come tensione scaturita dallo stress, resta la condizione necessaria e sufficiente per plasmare l’impronta psichica del bambino. Già nel primo anno di vita, si può nutrire fisiologicamente lo “psichismo” che ci caratterizza, oppure favorire lo sviluppo delle malattie mentali, in presenza ad esempio di condizioni patologiche quali l’anaffettività6. La suscettibilità epigenetica menzionata è inoltre un argomento di grande attualità, se si considera l’importanza dei molteplici fattori, che insieme formano un crogiolio di “environmental factors”, onnipresenti nell’eziologia delle malattie multifattoriali, tra le quali spiccano quelle psichiatriche7.Ad oggi siamo talmente interessati a scoprire substrati organici dello psichico e della mente, che non si può non essere riconoscenti alla ricerca neuroscientifica. Una vera manna dal cielo, se si considera che 50 anni fa si rischiava di essere esclusi dalle scuole di psicoterapia, se si divulgavano delle teorie alternative…!A partire dalla de-stigmatizzazione della psichairtia, è importante riconoscere tra gli altri meriti delle neuroscienze quello di aver reso alcuni approcci psicoterapeutici più comprensibili agli occhi di medici di settori diversi, rendendo prassi comune la richiesta di consulenze psichiatriche in diversi ambiti, come ad esempio in ginecologia, nelle urgenze, o nel campo delle malattie psicosomatiche.

Casi clinici e testimonianze

Cosa pensa il mio feto?
Dr. Giovanni Ruggeri, ginecologo presso il dipartimento di ginecologia ed ostetricia, Inselspital Universitätsspital, Bern, Svizzera.

“Quando eseguo le ecografie in diagnostica prenatale, sono soggetto a diversi tipi di domande. Durante la visita, devo imbattermi in una sfida complessa se si considera che, nel rispondere alle neomamme, bisogna da un lato attenersi alla scienza e dall’altro, si cerca di non deludere le richieste, a volte imbarazzanti e ambiziose, delle gestanti. “Dottore, si può già vedere il colore degli occhi del bambino?”, “Scusi, dottore, vorrei sapere se giusto osservando il feto si puo’ prevedere quale sarà l’altezza di mio figlio.”

Ammettere di non saper rispondere fa parte della prassi di noi ginecologi, anche perché in pochi minuti siamo immersi in diversi tipi di misurazioni con l’ecografo, che spostano rapidamente il focus della concentrazione dalla madre a valvole fetali e piccoli omeri. Un giorno mi capito’ davvero di non saper rispondere: una giovane paziente svizzera mi chiese se potessi prevedere il “carattere” del suo bambino. “Dottore, ma mio figlio adesso pensa?” Rimasi spiazzato. Ho sorriso, per poi rispondere pacatamente ammettendo che ad oggi non possediamo strumenti per misurare l’attività cerebrale fetale e che, grazie alle conoscenze attuali, bisogna accontentarsi di studiare macroscopicamente l’encefalo e le sue substrutture. Eppure, quella paziente aveva risvegliato in me una curiosità tale che, a fine consultazione, ho cercato su Pubmed degli articoli che mi suggerissero come studiare scientificamente il “carattere” e più generalmente, la psiche dei feti. Le mie parole chiave erano “fetal mind, epigenetics, birth”. Rimasi stupito quando osservai che trai i vari nomi degli autori c’era quello di un italiano, uno psichiatra tra l’altro. Ho affinato le mie ricerche con “birth human theory” e forte delle mie reminiscenze universitarie, mi sono imbattuto nella teoria della nascita di Massimo Fagioli. Non pensavo che a 50 anni dalla sua teorizzazione, il suo pensiero, tra l’altro scarno di strumentazioni quali EEG o la ricerca di qual si voglia proteina nel sangue del cordone ombelicale, avesse ancora una notevole importanza scientifica. Attualmente non esistono studi che possono meglio spiegare come il feto, che legalmente non è riconosciuto come un’entità “pensante” ma per il quale la nascita è la condizione necessaria per l’azionabilità in giudizio dei diritti, possa già avere i presupposti di una pseudo coscienza. Eppure, a partire dal minuto 1 di vita, sono diversi gli studi che hanno dimostrato come l’attività cerebrale neonatale sia uno scrigno di stimoli. Con l’EEG dei prematuri si è capito come alcuni piccoli pazienti siano più soggetti a sviluppare epilessia rispetto ad altri8,9. Numerosi ricercatori si sono inoltre interessati alla suscettibilità ambientale del feto e del neonato, per capire come grazie l’epigenetica, sia il nostro corpo che la nostra mente, siano spesso riprogrammati più volte anche prima di nascere e di come il nostro carattere sia influenzato di conseguenza10. Inoltre, quando si parla di fetal programming, ci si imbatte spesso solo nella patologia e non nella fisiologia. Gli studi più recenti in ostetricia partono infatti da condizioni patologiche, quali stressor nella madre, infezioni trasmissibili al feto e condizioni ambientali sfavorevoli per studiare lo sviluppo neuropsicologico del bambino, ma difficilmente si ha la tendenza a considerare la nascita della “psiche” come qualcosa di più propriamente fisiologico11,12. Pensare che tutto cio’ possa scaturire dal primo fotone che sbatte contro la retina del bambino, illuminando così il “buio” della sua coscienza, è una teoria da cui mi voglio lasciare affascinare.”

Quando l’istinto di morte porta ad uccidere: la pulsione di annullamento tramite un caso di psichiatria forense.
Dott.ssa Ambra D’Imperio, psichaitra in formazione in psichaitria forense presso il CURML (Centre Universitaire Romand de Médecine Légale), Hôpitaux Unievrsitaires de Genève, Svizzera.

La signora S. è una paziente di 30 anni, che consulta le urgenze psichiatriche del pronto soccorso di Ginevra in marzo 2020, durante la prima fase della pandemia di SARS-CoV-2. Il motivo di accesso riportato nel rapporto è scritto frettolosamente “Décompensation psychotique aiguë”, ma il corredo di polizia e ambulanzieri, faceva presupporre che si trattasse del solito paziente intossicato, aggressivo e psicotico, per il quale spesso si scende all’accettazione del pronto soccorso con una certa adrenalina. Invece, tutt’altro. Il primo contatto con la paziente nel box mi fa notare, oltre ad una palpabile impazienza, un’impenetrabilità negli occhi che parlava di dissociazione psicotica. “Cosa possiamo fare per lei signora? ““Ho strangolato mio figlio perché non voglio che respiri aria infetta di SARS-CoV-2; questa pandemia ci distruggerà e io non voglio perdere mio figlio.” Capimmo subito che era necessario alzare il livello di allarme e subito dopo, la paziente fu presa in carico con un TSO per scompenso psicotico acuto. Inoltre, una volta aperta l’indagine per il tentato omicidio da parte della donna nei confronti del figlio, fu necessario effettuare una perizia psichiatrica per valutare la responsabilità della donna.

Come spesso succede, si resta stupiti davanti a simili evidenti scompensi psicotici, soprattutto se in pazienti che non sono conosciuti per antecedenti psichiatrici. È il caso di questa donna, di origini cecoslovacche, da dieci anni in Svizzera per ragioni di lavoro. Scandagliando gli elementi del suo vissuto, troviamo diverse esperienze traumatiche come l’esser stata salvata da bambina da un lago ghiacciato dove era scivolata e il ricordo di un parto cesareo in urgenza per dare alla luce suo figlio, di sette anni al momento dei fatti. Dal punto di vista relazionale, la paziente è sposata, ma la sua relazione sentimentale viene descritta come complicata, marcata da tensioni e gelosie nei confronti dell’ex-compagna di suo marito.

Per capire meglio da quali “istinti” fosse stato guidato il delirio della donna e di come la relazione con suo figlio fosse fusionale, basta ricordare che nei giorni antecedenti al fatto, essa riferiva di poter uscire di casa solo per assolvere i bisogni di suo figlio ed esclusivamente in sua compagnia. Non solo. Una volta a casa, la sua vita era totalmente dedicata a suo figlio, con la conseguenza di un’eclissi della vita di coppia e di quella personale. Inoltre, con lo scoppio della pandemia SARS-CoV-2, notiamo come avesse sviluppato una serie di credenze a sfondo delirante, per le quali il timore che suo figlio potesse morire infettato dal misterioso virus era stato tale da farle assumere diversi atteggiamenti bizzarri prima del tentato omicidio. La paziente racconta di come lei stessa avesse iniziato a bere del disinfettante, convinta che questa fosse l’unica purga capace di purificarla dal virus. Segue subito dopo il sospetto della morte della sua intera famiglia, con il conseguente pensiero che fosse preferibile uccidere suo figlio per risparmiargli una mesta esistenza solitaria. Riferisce freddamente di come abbia cercato di strangolare suo figlio con le sue mani, ma di come poi si sia fermata, sopraffatta dal senso di pena provato all’ascolto delle grida disperate del piccolo. Infine, conclude dicendo che, dopo aver tentato di strangolarlo, la paura per l’incolumità del figlio era tale da spingerla a trovare riparo nel buio rifugio antiaereo della sua abitazione, (struttura tipica dei basamenti delle case svizzere) dove ha spento la luce e dove, in piena decompensazione psicotica, ha scritto un messaggio a suo marito dichiarando che il loro figlio era morto. Giunti i poliziotti e gli ambulanzieri sul posto, la donna ha insistito nella convinzione delirante che suo figlio fosse ormai morto, e che ciò che ne restava, visibile agli occhi dei presenti, altro non era che un ologramma virtuale (13).Cio’ che colpisce di questo case report da un punto di vista psicoanalitico, é che la paziente aveva sviluppato un rapporto fusionale e di interdipendenza con il figlio di sette anni, probabilmente per dare ragione al conflitto di coppia, al punto di idealizzare il suo primogenito come l’oggetto “perduto”, dunque il marito assente.

E‘ interessante osservare come in questo caso l’istinto di morte sia proiettato nel desiderio di sparizione nei confronti del figlio, nel quale la donna ha estrinsecato una parte della sua esistenza e dei suoi bisogni, visto quanto fosse divenuta “fusionale” la diade made-figlio come parte di sé vissuta, quasi a ricostruire un cordone ombelicale. Nelle diverse interviste seguite al primo ricovero in urgenza e nelle valutazioni forensi, la donna racconta di come suo figlio fosse diventato il cardine della sua vita. L’idealizzazione del figlio corrisponde alla negazione dell’esistenza del marito, con il quale la paziente aveva ridotto drasticamente ogni tipo di relazione, da quelle interumane ai rapporti sessuali. Il desiderio di sparizione nei confronti del marito (La paziente asseriva “Per non soffrire, io mi faccio sparire”) idealizzato nel figlio, con il quale ha cercato di realizzare i suoi bisogni negati nel rapporto con il marito, la spinge al tentato omicidio del figlio, nel quale ha proiettato anche la parte malata di sé. Non a caso, subito dopo i fatti, si nasconde insieme al figlio appena aggredito nel buio rifugio antiaereo del suo stabile. Una scena che evoca la fantasia di sparizione, se si considera che, nella discussione di questa perizia è ricorrente la simbologia del buio, luogo di oblio. Se la morte é il contrario della nascita, possiamo concederci una metafora che mette a confronto il buio ventre materno, caldo tranquillo e ricco di amnios, con lo scarno rifugio antiaereo, vuoto e freddo, proprio come la morte.

Alla luce di questa chiave di lettura, l’istinto di morte di Fagioli e il principio di negazione freudiano offrono una visione non solo psicoanalitica, ma anche un’analisi portatrice di una valenza giuridica, che é valsa la riduzione della pena della donna in questione, se si considera che questo caso clinico ha comportato l’attenzione di una perizia psichiatrica e lo svolgimento di un processo penale. I periti in quesitone si sono dovuti esporre sulla valutazione dello status mentale della donna al momento dei fatti e sul rischio di dangerosità e recidiva violenta: la responsabilità penale è stata diminuita in virtu’ dello scompenso psicotico, che al momento dei fatti ha guidato il gesto dello strangolamento e “inquinato” lo status mentale della donna, offuscando la sua capacità di autodeterminarsi. La pulsione di annullamento resta dunque un concetto appartenente alla sfera dell’inconscio, che non sottende automaticamente un’estrinsecazione comportamentale, tra l’altro violenta, come nel caso discusso. Non a caso la dangerosità e il rischio di recidiva violenta sono stati quotati come elevati, dimostrando come l’atto di uccidere sia, anche se imprevedibile, sempre cosciente. La scelta di questo case report mostra in modo inequivocabile come l’istinto di morte non sia dunque soltanto una teoria evanescente, ma anche una teorizzazione che può potenzialmente acquisire un risvolto pratico e persino valenza giuridica.

(Gli autori di questa perizia mantengono il riserbo sui dettagli processuali. Il case report è stato trattato anonimizzando i dati della paziente e secondo il codice di bioetica degli Hôpitaux Universitaires de Genève)

La morte di Zoe: davvero una questione di istinto?
Dott.ssa Beatrice Quaglairini, capoclinica settore maternité, servizio di psichiatria di liaison, Hopitaux Universitaires de Genève, Svizzera.

Il mio primo incontro con la Signora G. avviene esattamente il 30 dicembre 2020, alla fine di un anno particolarmente intenso. Le angosce di morte sono state fedeli accompagnatrici di ciascun individuo che si è dovuto confrontare con la pandemia. Procreare quindi è diventato uno stratagemma salvifico, ma non per tutte le coppie.

Quella mattina, ricevo una chiamata dalla psicologa infantile, che mi sollecita per una valutazione urgente di una madre, la cui figlia è ricoverata in terapia intensiva. Poche ore dopo, accolgo la giovane ventottenne nel mio studio. E’ in palese stato di shock, parla poco, guarda nel vuoto, mi nomina a stento sua figlia e pronuncia la parola “incidente”. Il suo discorso è spezzettato e sconnesso, le emozioni sembrano prevaricanti; decido di andare per ordine e riprendiamo dall’inizio. La signora G. mi dice di essere nata e cresciuta in Francia, dove tuttora vive e di lavorare nell’amminsirtazione di uno studio di architetti. Racconta di un’infanzia felice, una famiglia sempre presente, con due genitori oramai pensionati ed una sorella gemella che vive a pochi chilometri di distanza. Dice di non essersi mai confrontata con una malattia mentale o con la sofferenza profonda, né personalmente né sul piano familiare. Le domando della gravidanza attesa e desideratissima, sopraggiunta dopo pochi mesi di tentativi. Una gravidanza senza complicazioni sul piano ostetrico, un parto naturale, avvenuto in tempi rapidi per una primipara e facilitato dall’efficacia dell’epidurale. Il marito, un uomo risoluto di qualche anno più grande, é descritto come un pilastro portante per tutti i nove mesi. La coppia è unita da dieci anni: pochi conflitti e molta complicità. Dopo una casa costruita insieme e il matrimonio, l’idea di aggiungere un nuovo elemento, in un quadro già di per sé perfetto, celava l’ambizione di coronare il sogno di una famiglia. L’incontro con la piccola Zoe (dal greco “vita”), é stato un momento ricco di commozione: le prime settimane di un neonato sono particolarmente intense, tuttavia la paziente sembra descrivere solo ricordi felici, gli sguardi curiosi, i primi bagnetti, la scoperta reciproca, le presentazioni ufficiali in famiglia. Davanti un quadro così idilliaco, desta perplessità capire come proprio durante la Vigilia di Natale, momento che onora la nascita, ci sia stato tempo e spazio per un’istinto di morte.

Erano all’incirca le dieci di sera: la paziente allattata la piccola, che si addormentata subito dopo. Lascia Zoe nel suo lettino, chiude la luce. Scese le scale del suo duplex, si reca in soggiorno per rilassarsi sul divano accanto a suo marito. Era stanca, come tutte le neomamme a tre mesi dal parto. Il tempo di addormentarsi tra le braccia di suo marito e Zoe si manifesta, con un pianto insistente. Il marito comprensivo, la rassicura, le dice di riposarsi, si alza rapidamente e sale le scale per calmare la piccola. Da qui in poi, il vuoto: i ricordi sono confusi, la Signora G. evoca uno stato onirico. Nel dormiveglia, sente un suono, un suono emesso dalla piccola, descritto come diverso, una sorta di stridio. Si preoccupa e allo stesso tempo si rassicura ricordandosi che suo marito è li con Zoe. Dopo qualche minuto, l’istinto materno la sollecita, il pensiero non la abbandona. Decide di alzarsi, sale le scale ed entra nella stanza. La signora G. descrive un’immagine raccapricciante, suo marito addormentato sul letto, nell’incavo del suo braccio destro la piccola Zoe, il viso di pelle cerulea e sangue e poi la mano sinistra di suo marito che le copre il volto. Da li ricordi nuovamente confusi. Lei grida, togliendo la mano dal volto di Zoe, lui si sveglia e inizia a rianimare la piccola, l’ambulanza sopraggiunge e la corsa contro il tempo inizia. Il ricovero in Francia, la prognosi riservata, l’angoscia e le lacrime che si mescolano, poi la speranza, il trasferimento a Ginevra, dove le cure in neonatologia sono più specialistiche. Nei giorni successivi, la signora G. dice di sentirsi persa, passa le sue giornate tra l’ospedale e il tragitto Francia-Svizzera, il sonno è quasi assente, il senso di vuoto la riempie. Nessuno della famiglia è informato sulle dinamiche dell’evento: “non capirebbero”. Lei stessa ripete di continuo che è stato “solo un incidente”, che “sarebbe potuto capitare a chiunque” e che suo marito “non ha alcuna colpa”. Lo ripete più volte ad alta voce, quasi a volersene convincere. Le condizioni di Zoe sono attualmente drammatiche: c’è una ridotta probabilità di sopravvivenza, l’asfissia ha compromesso irreversibilmente la massa cerebrale, l’eventualità di una disabilità severa è pressoché una certezza. Zoe non è più la bimba perfetta di prima, non è più funzionale all’Ideale di famiglia felice. Zoe è severamente malata e lo sarà per sempre. Una volta assimilata in certo modo questa informazione, la signora G. dice di pregare ogni giorno e di chiedere alla piccola “di partire”. Esprime le sue perplessità rispetto alla possibilità di vivere con una figlia disabile e malata. Adduce tante motivazioni logiche legate al “non potersene occupare” ossia il cambiamento radicale di vita, l’idea di scarificare la sua professione, le ingenti spese mediche, l’accettazione di una realtà sconfortante. Per questi motivi, sia lei che il marito, tutti i giorni, chiedono a Zoe di partire. Per il suo bene. E per il loro. Zoe è partita il 3 gennaio. Il suo sistema immunitario non ha retto la lotta contro un’infezione batterica. In seguito, non ho più rivisto la signora G. che non si è presentata all’appuntamento previsto. L’ho contattata telefonicamente ed ha accettato dei numeri di colleghi in Francia, dicendo che ne avrà bisogno.

Le pulsioni di annullamento sono protagoniste assolute di questa storia. In modo inconscio un padre si addormenta con la mano sul volto della figlia e involontariamente, spinto da una plausibile pulsione di annullamento, le toglie la vita e la fa “sparire” dalla coppia. Da un punto di vista psicoanalitico, la coppia genitoriale rappresentata è fusionale e mossa da una simbioticità che non lascia spazio a confini interpersonali. La gravidanza è stata la prima minaccia, in quanto di per sé comporta uno stato di fusionalità tra madre-feto. Con la nascita, il bambino diventa poi parte integrante del trio e allo stesso tempo fonte di separazione nel duo genitoriale. Ciò può determinare un sentimento di esclusione e abbandono nel partner, fonte di sofferenza intollerabile. Possiamo dedurre che per il padre, la presenza di un terzo ha destabilizzato completamente le dinamiche di un duo perfetto. Farlo sparire era l’unico modo per permettergli di ritrovare quell’equilibrio perduto. Il tragico evento ha inoltre alterato quell’ideale di famiglia perfetta, che così ideale poi in realtà non era. La coppia abbandona ogni speranza e chiede alla loro figlia di sparire. La Zoe ideale e quindi immagine di “Vita perfetta” scompare e lascia spazio all’immagine di una figlia imperfetta, disabile, malata in modo irreversibile. Questo aspetto sembra ulteriormente insostenibile per la coppia. Entrambi i genitori sarebbero in questo caso ancor più a rischio, dovrebbero annullarsi completamente, vivendo unicamente in funzione di quel terzo, la loro primogenita, che aveva già messo a rischio la loro relazione fusionale. Ancora una volta le pulsioni di annullamento sembrano agire. Annientare la presenza di Zoe sembra l’unica soluzione inconscia per ritrovare uno stato anteriore. Sperare che non sopravviva diventa una necessità. Inoltre, si analizza l’aspetto paranoideo della coppia, che non immagina poter condividere le dinamiche dell’evento con nessuno. Come diceva Freud, “quando in una coppia i due partner sono sempre d’accordo su tutto, uno dei due sta pensando per entrambi”. In questa configurazione di coppia, il marito, il partner dominante, sottomette sua moglie a un’ideale di relazione simbiotica e totalizzante, in cui il mondo esterno viene percepito come un pericolo ostile. Nei pochi colloqui effettuati, benché il marito fosse fisicamente assente, restava una presenza ingombrante nella stanza. Il segreto medico-paziente e lo stato di shock sono stati i probabili elementi che hanno permesso alla signora G. di condividere le dinamiche dell’incidente, con il loro pesante segreto.

Cosa ne sarà dell’Istinto di morte tra 50 anni?
Marcello Ienca, PhD EPFL (École polytechnique Fédérale de Lausanne), College of Humanities (CDH), ERANET-NEURON Group Leader, Head of the Intelligent Systems Ethics Group CM, OECD Steering Committee on Neurotechnology, Expert Advisor|SAP on Human Rights and Technologies in Biomedicine Council of Europe.

Dato per assunto che l’assioma fagioliano parta dalla stimolazione retinica per produrre un’immagine psichica, è possibile presupporre anche il contrario? Secondo il principio di falsificabilità di Popper, una teoria per essere vera, deve suggerire i mezzi per poterla negare. Fagioli non si aspettava che forse la sfida del ventunesimo secolo sarebbe stata proprio quella di negare la sua teoria ossia quella di presupporre che a partire dalla nostra immagine psichica, si possa infine estrapolare la formula del nostro inconscio, magari sotto forma di codice. L’intelligenza artificiale (IA) è penetrata ormai nel nostro quotidiano, ci controlla a volte in modo subdolo e “riflette” forse molto più rapidamente di quanto noi possiamo aspettarci. Se sia etico o no, arrivare ad un mero algoritmo del pensiero ed ad un istinto di morte quanto più artificiale e virtuale, è quesito aperto. In questo ambito, la nostra logica di analisi è di natura evolutiva. Infatti, l’IA ha subito diverse evoluzioni dal suo inizio negli anni ’50. La prima generazione di IA è stata “analitica descrittiva”, ovvero che risponde alla domanda “Cosa è successo?” La seconda generazione è detta “analitica diagnostica”, ovvero risponde alla domanda “Perché è successo?”. La terza e attuale generazione è infine l'”analitica predittiva”, che risponde alla domanda: “Sulla base di ciò che è già accaduto, cosa potrebbe accadere in futuro?”. E nel nostro caso, cosa ne sarà dell’istinto di morte tra 50 anni?

Mentre l’analitica predittiva può essere molto utile e far risparmiare tempo agli scienziati dei dati e dunque anche ai medici, è ancora completamente dipendente dai dati storici. Gli scienziati dei dati sono quindi lasciati indifesi di fronte a nuovi scenari sconosciuti. Per avere una vera “intelligenza artificiale”, abbiamo bisogno di macchine che possano “pensare” da sole, specialmente quando si trovano di fronte ad una situazione non familiare. Abbiamo bisogno di un’intelligenza artificiale che non si limiti ad analizzare i dati che le vengono mostrati, ma che esprima una “sensazione di pancia” quando qualcosa non quadra. Un istinto, appunto. In breve, abbiamo bisogno di un’IA che possa imitare l’intuizione umana. Quindi anche un istinto di morte.

La quarta generazione dell’IA, per l’appunto, è “l’intuizione artificiale”, che permette ai computer di identificare minacce e opportunità senza che ci venga detto cosa cercare, proprio come l’intuizione umana ci permette di prendere decisioni senza essere specificatamente istruiti su come farlo. È simile a un detective esperto che può entrare in una scena del crimine e sapere subito che qualcosa non sembra giusto, o un investitore esperto che può individuare una tendenza in arrivo prima di chiunque altro. Il concetto di intuizione artificiale è un concetto che solo cinque anni fa era considerato impossibile. Ma ora aziende come Google, Amazon e IBM stanno lavorando per sviluppare soluzioni e alcune aziende sono già riuscite a renderlo operativo14.Quindi, come fa l’intuizione artificiale ad analizzare accuratamente dati sconosciuti senza alcun contesto storico che la indirizzi nella giusta direzione? La risposta sta nei dati stessi. Una volta presentato un set di dati attuali, i complessi algoritmi dell’intuizione artificiale sono in grado di identificare qualsiasi correlazione o anomalia tra i punti dati. Naturalmente, questo non avviene automaticamente. Innanzitutto, invece di costruire un modello quantitativo per elaborare i dati, l’intuizione artificiale applica un modello qualitativo. Analizza il set di dati e sviluppa un linguaggio contestuale che rappresenta la configurazione complessiva di ciò che osserva. Questo linguaggio utilizza una varietà di modelli matematici come matrici, spazio euclideo e multidimensionale, equazioni lineari per rappresentare il “quadro generale”.

Se si immagina il quadro generale come un puzzle gigante, l’intuizione artificiale è in grado di vedere il puzzle completo fin dall’inizio e poi lavorare all’indietro per riempire i vuoti basandosi sulle interrelazioni degli autovettori.

A mio modesto avviso, però, l’’intuizione artificiale non è destinata a sostituire l’istinto umano, tanto meno quello di “morte” nel senso fenomenologico del termine inteso da Fagioli. È solo uno strumento aggiuntivo che aiuta le persone a svolgere il loro lavoro in modo più efficace. In ambito clinico, ad esempio, è difficile immaginare un’intuizione artificiale che sia in grado di prendere una decisione finale da sola. Basti pensare al grande “bug” che si creerebbe, quando un istinto porta ad uccidere, come nei casi sopra descritti. Essa starà più probabilmente presentando all’analista o al clinico ciò che ritiene essere un comportamento anomalo o il prodotto di una decompensazione psicotica. Ma rimane il compito dell’analista di esaminare le anomalie identificate e confermare i sospetti della macchina.

L’IA ha certamente fatto molta strada da quando Alan Turing presentò per la prima volta il concetto negli anni ’50 e non mostra alcun segno di rallentamento. Le generazioni precedenti erano solo la punta dell’iceberg. L’intuizione artificiale potrebbe segnare il punto in cui l’IA è diventata veramente “intelligente” nel senso che gli attribuiamo abitualmente in relazione alla cognizione umana, ovvero di adattamento costante e dinamico all’ambiente che, come abbiamo appreso dagli studi di Daniel Kahneman, può avvenire a due velocità: tramite un pensiero lento logico-analitico, ed uno veloce di natura istintuale15. Alcuni istinti, come quello di morte, nascono inevitabilmente dal secondo tipo di pensiero, ossia quello veloce di natura istintuale. Sapere che questi istinti sono non solo rapidi e irripetibili, ma anche connotati di un vivo connotato soggettivo tale da farli sfuggire anche agli algoritmi di macchine super potenti, avrebbe probabilmente dato a Massimo Fagioli un ultimo respiro di sollievo.

Bibliografia

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