La perdita dell’evidenza naturale a confronto con la fantasia di sparizione: intenzionalità cosciente e non cosciente.

ABSTRACT

Da tempo è in corso uno tsunami all’interno della nosografia e della cultura psichiatrica: per alcuni autori, il termine schizofrenia andrebbe abolito, in quanto troppo “stigmatizzante”. Nell’agosto 2002, la Società Giapponese di Psichiatria e Neurologia propone di sostituire la parola “schizofrenia” con “Disturbo dell’integrazione” (Integration dysregulation syndrome). Nel 2005 il Ministero della Salute giapponese riconosce ufficialmente la nuova denominazione. Ad Hong Kong, si avvia un analogo processo. Nel 2012, in Corea del Sud viene approvata la nuova denominazione, ‘Disturbo della sintonizzazione’ (Atunement disorder). Nel 2016, Jim van Os pubblica un articolo dal titolo inequivocabile: La schizofrenia non esiste. È così?

È del 1971 La perdita dell’evidenza naturale di Wolfgang Blankenburg. Si indaga la perdita del common sense nelle schizofrenie paucisintomatiche, senza riferimenti all’etiopatogenesi di malattia. Per Blankenburg, l’elemento “basale” dell’essere schizofrenico andrebbe riferito alla compromissione del rapporto con sé e con il mondo. L’intenzionalità cosciente per lo psichiatra tedesco è mettere tra parentesi (epochè) la realtà per cogliere l’intenzionalità del paziente, intenzionalità della coscienza, secondo Husserl. “Che cosa mi manca davvero?” sono le parole della paziente Anne Rau, “Qualche cosa di Piccolo, di strano, qualche cosa di Importante, di indispensabile per vivere. A casa, da mia madre, umanamente non c’ero. Non ero all’altezza. Mi limitavo a stare lì, stavo semplicemente in quel posto, ma senza essere presente. […] Ho bisogno di un legame che mi guidi, senza che tutto [sia] artificiale… […] Non ci riesco da me. Senza dubbio mi manca l’evidenza naturale“. Lo psichiatra coglie il senso di vuoto, di estraniazione della malata, mediante il proprio sentimento di estraneità. Tuttavia, la paziente si suicida.

In Istinto di morte e conoscenza, scritto nel 1971 e pubblicato nel 1972, viene descritto un caso clinico di schizofrenia, all’interno di una relazione psicoterapeutica. Si scontrano due mondi contrapposti, quello malato del paziente, con quello sano e creativo del terapeuta. Nel rapporto col paziente, lo psichiatra scopre la fantasia di sparizione, realizzata mediante la pulsione di annullamento in coincidenza con l’assenza del terapeuta e, prima, in occasione della morte del padre. Scrive Fagioli: “L’effetto della pulsione di annullamento onnipotente inconscia diretta verso l’esterno, è la realizzazione di: a) vuoto e buio interiore; b) negazione o sparizione del sé perché l’oggetto esterno è la proiezione di una situazione interiore del sé (identificazione con il padre).”

Qui è l’intenzionalità di curare cosciente e inconscia del terapeuta che consente di comprendere le comunicazioni verbali e non verbali del paziente, delineare la storia della malattia, svolgere il rapporto interpretando il latente: la morte del padre e con essa la perdita della “piattaforma di base” o identificazione fondamentale, con conseguente realizzazione interiore di vuoto e buio. Nella relazione col terapeuta, il paziente tenta il suicidio gettandosi da una finestra, senza riuscire. Gli viene interpretata la ripetizione dell’annullamento in occasione di una sospensione della terapia. Le pagine che seguono, e che chiudono la descrizione del caso, sconvolgono per l’intensità della presenza umana e la lucidità implacabile dello psichiatra, che interviene attivamente, come un chirurgo che opera: la terapia che prosegue, l’onnipotenza che si incrina, il paziente che ritrova una dimensione impensabile di affettività e sessualità e con esse un’immagine di nascita. Viene affrontata l’intenzionalità non cosciente del malato di mente grave con una intenzionalità assolutamente opposta. Con questa intenzionalità di cura, Fagioli si spinge a teorizzare la causa della malattia mentale, per la pulsione di annullamento diretta contro il mondo umano. Abbandonare la dimensione cosciente nell’approccio alla malattia mentale permette di uscire dal vicolo cieco della psicopatologia, che descrive brillantemente la clinica senza indagare, oltre il quadro clinico manifesto, il pensiero non cosciente del malato. “Vedere” nel malato un destino da cui non è possibile sottrarsi, che sia per alterazione organica del cervello oppure per un particolare “modo di essere nel mondo” (Dasein), potrebbe celare l’impossibilità della cura dietro un’apparente sospensione del giudizio.

Fagioli, senza pregiudizi nei confronti della malattia e del malato, oltre la clinica della perdita dell’evidenza naturale, scopre e interpreta la fantasia di sparizione alla base del vuoto del paziente. Realizza la possibilità di cura della malattia mentale, avendo l’idea di una fisiologia della mente. La mente può ammalarsi, nel rapporto con l’altro, nei primi mesi di vita, perdendo così l’evidenza naturale, il senso profondo della realtà umana propria ed altrui.

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