Una storia integralmente umana. De Martino, Camus, Fagioli: percorsi del pensiero europeo nel secondo dopoguerra

ABSTRACT

Il contributo intende mettere in luce come sia possibile trovare, nelle formulazioni dei tre pensatori presi in esame, dei punti di vicinanza, che testimoniano un salto complessivo nel pensiero sulla storia umana che si stava preparando a metà del Novecento e che ha trovato la sua piena realizzazione con la teoria della nascita fagioliana. Fuori da ogni finalismo, da ogni teleologismo, dagli eccessi dello storicismo e dalle astrazioni idealistiche, questa linea di ricerca che è possibile individuare sottotraccia nel pensiero europeo postbellico ha avanzato l’idea di una storia integralmente umana, concepita come evoluzione senza fine, nella quale la dimensione non cosciente ha ritrovato il suo posto.

La devastazione, umana e materiale, della Seconda guerra mondiale e dei regimi totalitari consegnò al pensiero occidentale l’arduo compito di mettere in crisi le proprie radici. Un’impostazione secolare, che aveva assegnato alla ragione il primato assoluto, sembrava vacillare. Da un lato questo poté nutrire le correnti più irrazionaliste della cultura europea, dalla psicologia analitica junghiana alla fenomenologia religiosa eliadiana, profondamente venate di cedimenti religiosi; dall’altro, favorì un rinnovato interesse per l’esistenzialismo negativo, per il quale l’unica scelta realmente data, per raggiungere l’autenticità del proprio essere, è assumere su di sé l’“essere per la morte”, l’angoscia, l’assurdo dell’esistere (da Heidegger a Jaspers a Sartre).

Ma accanto alla falsa alternativa tra un ritorno al religioso e l’annichilimento della specificità umana, un’altra strada sembrava dipanarsi. L’antropologia atea e progressiva di Ernesto de Martino (1908-1965) proponeva, in quegli stessi anni, di ripartire da un’indagine del mondo magico primitivo, nel quale rintracciare la specificità della nostra specie: quella umana “presenza” nel mondo che è senso non razionale del sé. Lungi dall’essere conquistata una volta per tutte, la presenza è perennemente esposta al rischio di crisi; de Martino riconosce così una condizione universale di fragilità che è però, al tempo stesso, occasione di apertura al nuovo. Di fronte alla crisi non esistono orizzonti di senso precostituiti, riti senza tempo, ideologie monolitiche alle quali aderire, ma solo il continuo riformulare e rilanciare degli esseri umani nella loro sfida per la vita. Questo divenire, «questa dialetticità, questo far passare, questo innalzarsi è la condizione umana, che può essere perduta nel senso del naufragio della presenza (psicosi e nevrosi), ma non mai oltrepassata, come pretendono magia e religione» (de Martino, 2002 [1977], p. 661).

Una tale concezione della storia come riformulazione permanente, che spazza via la questione del “fine”, che era stato posto a termine dalle vicende umane dal cristianesimo e non sufficientemente problematizzato dal marxismo, è in forte dialogo con quanto Oltralpe andava scrivendo Albert Camus (1913-1960). Il francese aveva elaborato, negli anni della guerra e della Resistenza, un umanesimo radicale, un «pensiero pieno di emotività» (Camus & Chiaromonte, 2019, p. 82) che va dal Mito di Sisifo, alla Peste e che troverà la sua piena espressione nel 1951, con la pubblicazione de L’uomo in rivolta.

In questo testo denso e originalissimo, il filosofo segna il suo definitivo distacco da Sartre; la sua riflessione sull’idea di rivoluzione si rivela una disamina senza appello del perché i moti rivoluzionari dei precedenti due secoli abbiano avuto come propria naturale conseguenza l’emergenza del nazismo. Come la rivolta della ragione sia terminata in pazzia, come la rivoluzione nichilista, la tradizione nietzschiana e quella marxista, pretendendo di superare la realtà umana, si siano tramutate in volontà astratta. Nel vagheggiamento di un fine ultimo, si sono ridotte a religioni della necessità, adottando una visione immobile della storia e opponendosi a una reale conoscenza dell’essere umano. «Ogni ideologia – scrive Camus (1951) – si costituisce contro la psicologia» (p. 132).

Per il francese, il passo da compiere per individuare i presupposti di una nuova realtà di rivolta, che possa ridefinire il corso della storia, è accettare la sfida conoscitiva della natura umana, uscire dall’assoluto della ragione abbracciando il pensiero di un «inizio». Cosciente e non cosciente si limitano vicendevolmente nell’uomo; di conseguenza, nessuna rivolta potrà realizzarsi che non tenga conto delle due dimensioni, che tenda ad assolutizzare la ragione: «Né il reale è interamente razionale, né il razionale del tutto reale» (ivi, p. 323).

Le proposizioni teoriche avanzate da Massimo Fagioli (1931-2017) all’inizio degli anni ’70 sembrano riannodare i fili dispersi di questo ripensamento della storia che si era fatto avanti a partire dal dopoguerra. La formulazione di una teoria scientifica sulla mente che colloca alla nascita, a partire dalla biologia, l’inizio della vita umana e del pensiero non cosciente offre la base di una nuova antropologia che porta pienamente a compimento le intuizioni dei precedenti pensatori. Ponendo, con l’idea di nascita, un inizio, Fagioli introduce nella storia come incontestabile il pensiero di un nuovo assoluto, di comparsa di qualcosa che prima non c’era. E concettualizzando di conseguenza l’immagine di un processo di sviluppo, è la nozione stessa di tempo che viene riformulata. La ripetizione, sanzionata dal mito dell’eterno ritorno, diventa leggibile come dimensione patologica. La storia umana vista nel suo complesso perde ogni possibile connotato di ripetitività per diventare trasformazione e riformulazione permanente.

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