Ultime frontiere nel trattamento dell’autolesionismo nell’istituzione penitenziaria. Una nuova prassi di psichiatria come psicoterapia

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ABSTRACT

L’autolesionismo è un fenomeno, ad oggi, molto diffuso in carcere. Definito come: “la distruzione deliberata e autoinflitta di tessuti corporei senza intenti suicidi”, si manifesta più spesso con tagli cutanei sull’addome, sulle gambe o sulle braccia. La ricerca per il trattamento dell’autolesionismo suggerisce sia l’uso della farmacoterapia che di alcuni tipi di psicoterapia. Nel mio breve periodo di pratica clinica ho osservato, però, che spesso la soluzione è la somministrazione di alti dosaggi di farmaci tranquillanti, che non solo causano sedazione eccessiva con tendenza alla tossicofilia, ma non risolvono il problema. Tema di questo lavoro è sostenere che l’autolesionismo può essere approcciato con un nuovo metodo di prassi psicoterapeutica basato sulla possibilità del terapeuta di affrontare le dinamiche inconsce del malato. Questo diverso approccio si poggia sull’idea che il taglio non sia solo l’espressione di un sintomo, ma che vi siano alla base della sua genesi dinamiche non coscienti. Le cause dell’autolesionismo, negli istituti penitenziari, sono problematiche ad oggi ancora insolute. Secondo l’OMS sono in causa una concomitanza di fattori legati all’ambiente, interno ed esterno al carcere, uniti alla fragilità psichica del detenuto. Quest’ultima potrebbe essere la vera causa psicopatologica dell’autolesionismo, di cui i precedenti amplificano l’effetto. Infatti, secondo alcuni autori nell’autolesionismo la fragilità psichica è legata all’Anaffettività, stato in cui, anche se l’apparato neurobiologico funziona perfettamente, il paziente diventa incapace di provare sensazioni ed emozioni, insensibile agli stimoli esterni legati al rapporto interumano, per cui il taglio diviene l’unico tentativo di recuperare una qualche sensibilità. Nello sviluppare tale ipotesi gli autori si rifanno all’idea che l’Anaffettività abbia origine attraverso una dinamica non cosciente ed aggressiva: la pulsione di annullamento, come teorizzato dallo Psichiatra Massimo Fagioli nel suo libro “Istinto di Morte e Conoscenza”. La pulsione di annullamento è una pulsione rivolta verso la propria realtà interiore, che in situazione patologiche, come la carenza di vitalità, determina una sparizione del proprio io interno, con conseguente sparizione degli affetti e della propria sensibilità. Fagioli, attraverso la sua teoria della nascita, descrive, inoltre, una nuova idea di fisiologa della mente. Secondo lo stesso, infatti, la mente si forma attraverso la reazione della biologia umana con la luce, con una Fantasia di sparizione del non umano. Propone, così, una visione dell’uomo, sin dalla nascita, legata ad un’immagine interiore irrazionale, spontaneamente affettiva e rivolta positivamente al rapporto verso l’altro. Rapporto, poi, fondamentale per la sua evoluzione, nel quale ritrova la sua e possibilità trasformativa, separandosi cosi definitamente dalla idea di narcisismo, immutabilità e negativismo del neonato, appannaggio delle teorie psicanalitiche. Seguendo la nuova impostazione teorica, lo stato di malattia, con la carenza di vitalità, è causato da un’alterazione patologica del rapporto interumano, con i cargiver, nel primo anno di vita, e si potrà risolvere, in uno altro rapporto interumano non patologico, con lo psichiatra nella psicoterapia del non cosciente. Tali eventi fisiopatologici avverrebbero, attraverso meccanismi ancora in parte da approfondire, anche nell’autolesionista, portandolo poi alla manifestazione della patologia. Ciò renderebbe possibile intervenire, nell’autolesionismo, con questa nuova prassi di psichiatrica come psicoterapia basata su tre cardini: setting, transfert e sull’interpretazione dei sogni e sulle possibilità umane del terapeuta di “vedere” l’altro e di rapportarsi al suo inconscio. Si illustra qui, l’applicazione pratica di tale speciale approccio psicoterapeutico nel autolesionismo presso un istituto penitenziario, integrato, dove necessario, con terapia farmacologica. Concludo affermando che: lo svolgimento della psicoterapia è stato regolare, nonostante le difficoltà legate al particolare setting che è il carcere, un’istituzione chiusa e rigida in cui è difficile conciliare l’idea della cura con l’idea della punizione e della pena. Inoltre si sottolinea che tale tipo di approccio è riuscito ad eliminare il sintomo ed a determinare il progressivo recupero della sensibilità. Tali risultati inducono a pensare ad una possibile estensione della psicoterapia anche ad altre patologie nelle istituzioni pubbliche e chiuse, li dove, comunemente spesso è difficile arrivare.

 

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